1
C’è. Milvia.
Una volta. Due volte. Avvoltola le acciughe in uno stress di giornale, senza speranza di sfogliarsi, nel traffico -
granito senza tregua. L’ora smatura sul santino appeso a schermo del contagiri
del sangue. Lì fuori è tempo di
novembre. Dice fra sé e l’anice << non può, non si può>> e lo versa
nel caffè. C’è solo lei adesso, sotto l’empireo di travi rose; lei, il caffè,
brevemente: entra Micio Moro. Moro, il suo cognome da bambina. Occhi di legno,
elastici al vento, e nessuno che dentro vi abbia inciso un versetto. Milvia. Si
cerca nella cerniera, la riallaccia, cede. Non sa cucire. Hai voglia di
cantare. No. Hai voglia di leve, piaghe nuove. Ci sono diamanti, cercano il
lume del giorno che scade, diamanti di vetro incantevoli. Anzi è il latte che
scade, ma nel frigo non c’è molto altro.
Un uovo sodo di una settimana, il caffè avanzato in una boccetta di
succo di frutta mezza vuota, una fetta di torta: l’aveva portata qualcuno da un
anniversario. Non ricorda. Meglio
gettare, in ordine sparso: l’insalata – che la compra a fare? Non la mangia
nessuno. Se ne sta lì nel cassetto, invecchia, ospita piccoli mondi, spore di
bellezza che resistono. L’uovo lo mangio a pranzo, domani - poi la scatoletta di pollo del gatto
amuuffita – Formaggio e francia getta.. La francia… fossi ancora di 40 anni,
una luna appena scoperta… girare per i duomi ele strade in cerca di
elemosine celstiali. Siede, scrive il da farsi. Lista della spesa al grande
magazzino delle idee. Ne zampillano sempre rare. Appunti vari di un fremito ai
margini, né amori né limite, certo ne ho avuti - incide - poi m’annoiava ogni
cosa e di tutto m’infuocava quel breve andare da una vita all’altra: ripiegavo
i loro sorrisi di lino, mi frangevo in specchi da rasatura, piccini, presi in
chi sa quale bazar. Qui è un viavai d’affanni, il carbone dà ancora da
mangiare, a noi, agli altri. Pirati. Naufraghi fra le porte del tempo, usurai
A chi sto parlando? Stirare. Anzi, prima, chiamare sua madre al
telefono. Strappa dal sonno la cornetta ingiallita, compone il numero a dieci
cifre. Squilla contro la noia, fra gli altri convenevoli per non sapersi,
variamente policromi, ogni tonalità del grigio. sei, sette squilli a vuoto
e riaggancia. Se non Parigi, magari,
Palermo… ma a volte un colore ti sembra un altro.
2
Michele – 35 anni. Giustino – 28 Frida – 32
Michele nella sua ghirba - a riparo o per parare? Ha
smesso di pormi certe domande. Giustino, fisioterapista della grande azienda
del siamo tutti parenti, in fondo in
fondo. L’altra sboccia ogni autunno. triennale in archeologia e torte al
formaggio, si è trasferita, da poco. Sai cos’è l’isola di White? Lo sai,
Milvia? Dovrebbe essere il suo tempo migliore, madre-intervallo, figlia ad
honorem. Sorella. Zia di mocciosi a cui insegnare le regole del grande domino.
Di domenica. Ma domani è lunedì. Mi toccherà lavorare sino ai capelli corti,
come si usa, non più tinti: michele ha 35 anni. Se ne va in lungaggini, sipari,
lì, nella cesta dove a volte è serpe a volte grano verdissimo da stipare per le
feste dei santi.
Se non Palermo, non so, con un po’ di coda.
3
Rientra Nero. Nome inusuale, per lo meno. Se fosse un
romanzo. Figlio di Avierescelto ed Ernesta. Morti l’uno a 46, l’altra a 70.
Piove, sul circolo non c’era un’anima. Apre lo stipo dove si tengono i
biscotti, ne prende uno, si sgancia la protesi dentale, accende il vecchio re
che già era sul canale di cronaca sportiva. Appoggia il braccio sinistro sul
cuscino di vellutino,continua a tacere. Avrebbe voluto fare la scrittrice, la
dottoressa in qualche ramo della psicologia Avrebbe voluto imparare a parlare
il francese, lo spagnolo. Se la cava con l’inglese. Milva conosceva il greco,
il latino. Era pronta a consigliarti il farmaco giusto da prendere in caso di.
Ti faceva le punture. Non usava friggere. E condiva con poco olio i pomodori
che da ragazza mangiava, prendendoli dalle cassette in cortile, senza
sciacquarli, a morsi. Si può quasi dire che amasse i pomodori. Padre svizzero
per acquisizione. Madre sarta paralizzata in una tutta ora rosa, ora blu scuro,
con la difficoltà di indossare delle pantofole adatte alla forma che l’artrite
reumatoide le aveva dato a tutti gli arti. Giovannina. Poco altro amava,
Milvia, come i pomodori.
4
Micio Moro deve essere portato dal veterinario per un
richiamo di non so che vaccino. Ho sempre “avuto” gatti, fin da ragazza. Avuto
non è il verbo appropriato. Perciò tace. Spesso. E’ stato Nero a portarlo a
casa. Siamese, nero come un corvo in gennaio. Era davanti al portone. Magro,
zampettante, liscio come una buccia di pesca. Non lo accarezzo, mai, anzi:
quasi mai. Gli do le sue crocchette, talvolta una scatoletta di non so che,
qualche avanzo. Non amo la compagnia. Mangia fuori. Come io sto fuori. Tranne
dopo la visita dal veterinario, come a stemperare un torto fattogli. Sto fuori
di me, sto. Fuori dal torneo, per il tempo tra l’apnea notturna e la tivvù
prima di coricarmi di nuovo. La lascio accesa fino a notte inoltrata. Quasi non
la guardo. L’unica compagnia che non mi dà pesi. La notte, mentre il resto
della casa affonda le radici in sogni che non racconta. O che non ha. Gliceria,
il nome della gatta di quando abitavo nella casa dirimpetto a quella attuale.
Mi accompagnava a scuola. Mi aspettava fino a che ne uscissi. Teneva lontani i
sorci dal granaio, lì erano sistemate alcune brande per accogliere il sonno di
qualche zio di fuoriporta. I miei riposini pomeridiani, con l’indice in un
libro e la matita per aggiustarmi i capelli in una coda dissoluta. La finestra
tonda pareva l'oblò di una nave, una di quelle sui libri di scuola. Avrei
voluto imbarcarmi. Essere una polena. Una vela.
Quando morì sua zia Maria, quei lettini di vecchia paglia furono usati per cinque dei nove cugini in età scalare dai 12 ai 3 anni. Dormivano avviticchiati a quel poco di infanzia che gli sarebbe rimasta, di lì a poco. Da allora, da quando furono affidati, chi a un parente, chi a un istituto, chi a un fabbro mastro o un pastore,di quattro animelle, è il suo mondo di arche perdute. Qui nulla può sfiorare i miei capelli. Ma prese i pidocchi e la rasarono a zero. Quando i capelli ricrebbero, da fulva che era, diventò bionda. Come la cenere di incenso. Ora usa una tintura nera e li porta mossi come a causa di un vento leggero, costante. Come davanti a un ventilatore su media velocità. Il solaio è ancora il suo isolotto. Invaso dalle rondini. Sede di misteriosi accerchiamenti di fate megere. Inviti di streghe nel sabato pomeriggio, quando il cielo è un vertice di grigio e sta per scendere l'acqua dorata del silenzio. Ha questo colore il silenzio, a volte. Piomba dalle volte, si stende come un mando di pensiero sui viali. Viene spesso a cercarla un albatro maestoso. Sodale di chilometri vagati fianco a fianco. Lo scheletro celeste di una patria irraggiungibile. Un satiro. O un maestro di pietra che muta il sangue delle genti in argento turchese, questo è un altro colore di cui varrebbe la pena di parlare. Ma non sa spiegarsi stavolta, valica con gli occhi un'ombra sul cortile, posa la lenza dello sguardo sulla vecchia gabbia delle oche ora adibitra a fioriera. Si stacca un limone. Batte sul rullante di porfido sereno, limpido. Ecco. Un argento turchese. Il sangue. Non era poi così difficile.
Quando morì sua zia Maria, quei lettini di vecchia paglia furono usati per cinque dei nove cugini in età scalare dai 12 ai 3 anni. Dormivano avviticchiati a quel poco di infanzia che gli sarebbe rimasta, di lì a poco. Da allora, da quando furono affidati, chi a un parente, chi a un istituto, chi a un fabbro mastro o un pastore,di quattro animelle, è il suo mondo di arche perdute. Qui nulla può sfiorare i miei capelli. Ma prese i pidocchi e la rasarono a zero. Quando i capelli ricrebbero, da fulva che era, diventò bionda. Come la cenere di incenso. Ora usa una tintura nera e li porta mossi come a causa di un vento leggero, costante. Come davanti a un ventilatore su media velocità. Il solaio è ancora il suo isolotto. Invaso dalle rondini. Sede di misteriosi accerchiamenti di fate megere. Inviti di streghe nel sabato pomeriggio, quando il cielo è un vertice di grigio e sta per scendere l'acqua dorata del silenzio. Ha questo colore il silenzio, a volte. Piomba dalle volte, si stende come un mando di pensiero sui viali. Viene spesso a cercarla un albatro maestoso. Sodale di chilometri vagati fianco a fianco. Lo scheletro celeste di una patria irraggiungibile. Un satiro. O un maestro di pietra che muta il sangue delle genti in argento turchese, questo è un altro colore di cui varrebbe la pena di parlare. Ma non sa spiegarsi stavolta, valica con gli occhi un'ombra sul cortile, posa la lenza dello sguardo sulla vecchia gabbia delle oche ora adibitra a fioriera. Si stacca un limone. Batte sul rullante di porfido sereno, limpido. Ecco. Un argento turchese. Il sangue. Non era poi così difficile.
5
Ho provato decine e decine di volte a scrivere
racconti: se ne andavano su agente datate, le copertine in cartone o finto
cuoio. Non ne ho più una. E non ho più lancette che seguano il ritmo dei miei
polsi. i versi di ragazza. Non mi chiedo dove siano, ho cambiato borse, case,
albe in vespri, ma che ne è delle clessidre della piccola Milvia? 1 metro e 50,
abbondanti. Belle gambe di matrioska, borsa di studio e medaglia d’oro del
ministero dell’istruzione. Non amavo indossare nessun tipo di cappello. Eppure
ricordo un sonetto in cui dicevo di un cappello che se ne va col vento, in
agosto. Rimango col capo scoperto a raccogliere fra i capelli le stelle. Ero
giovane. Avevo settant’anni. Un diploma di liceo classico appena fiorito nella
gelata della morte di un caro amico che abitava in una masseria di un paese vicino.
Fulvio. Anche la luce può stancarsi, fermarsi all’angolo di una galassia,
riposare le ossa e le illusioni. Se posso fare uno strano raffronto. Nessuno
che possa sconfiggerti eccetto l’idea di te, amica di troppi fantasmi.
L’orologio segna le 5, quindi, sono le 6.
Amarsi come fanno gli angeli: dopo l’amplesso perdono
le piume. Devono aspettare primavera che ricrescano. Ma almeno per il tempo in
cui diventano mortali hanno il ricordo di un gusto superiore, di una lentissima
sequenza di cerchi indefiniti, hanno le mani ancora pulite, come non si fossero
mai tolti i guanti - trovarne un paio della misura giusta per me è sempre stato
difficile - odio il volante gelato. La brina sui vetri. Il marasma delle scuole
la mattina prima di arrivare al caffè con le colleghe. Odio queste piume
perenni. Vorrei dire a Nero che è
finita. Vorrei se ne andasse. Che cercasse la sua di strada. Ma non ho la forza
di lasciarlo andare. Resta qui, puntellato al duttile sfondo di vita provinciale,
mangia. beve. Dorme. Dormicchia. Apre la fontana quando va al bagno, per far
ripartire l’autoclave, c’è poca pressione. Un po’ ovunque. Qui. Regine di
picche, fanti di cuori.
6
E poi sto bene, in fondo. Non mi mancano rughe. Pieghe
del respiro. Mutamenti dell’animo ne ho, abbondano, scrivo con il pennino della
mente cento versi d’amore al giorno, versi di pece, sulla gloria mortale delle
piccole cose che mi abitano o mi spopolano. Soffiando, come ho insegnato a
Michele, i serpentelli fuori dalla bocca, lentamente, riempiendo completamente
i polmoni. Michele è il suo secondo nome, separato dal primo da una virgola. Si
fa leggera l’ansia. Soffio. Amplifico il
gesto. Sto bene per ore, giorni, canticchio vecchie canzoni di cui ho scordato
le parole, le invento, le azzoppo, per giorni, mesi. Ma, si sa, il tempo è come
l’orologio della mia cucina. Mia. Perché mia. Passa in fretta un mese e dieci
minuti in attesa che si liberi la sedia all’ufficio postale scoccano frecce
contro la mia armatura di seta. Allora provo a cantare una canzone, i denti
stretti: stavolta le parole sono quelle giuste. Rimango in piedi mentre altra
gente è entrata nella stanza, fuori una volta sfilava il corteo della
Candelora. La casa dalle mura che cadono. Mio padre non mi ha mai dato uno
schiaffo. Io non gli ho mai portato le pantofole, quando ritornava dalla
fabbrica di nastri magici. Mamma cuciva a me e mia sorella i vestiti per le
nostre due bambole di pezza. Avevo una esigua collezione di libri per ragazzi,
il primo che ho letto: i tre moschettieri.
L’orologio segna le 7. Dovrei preparare la cena ma la
cena non ha voglia di essere preparata.
Panini. Se faccio in tempo. Un po’ di pizza casareccia, se Edeva ne ha
ancora. Qualche oliva. Io mi scaldo un po’ di latte. Ah, l’ho gettato, era
scaduto, Spero di ricordarmene.
Metto il ferro sul ripiano gommato. Spengo la luce.
7
Qui siamo adusi a un’esistenza superficiale, la vita
scandita dagli orologi da polso, sintonizzati sulla partita della domenica
della squadra di calcio giovanile, sull’angelus, sull’ambulante che ogni
giovedì porta la gazzosa e bibite varie. Qualcuno si impegna nel coro
pastorale, altri distribuiscono viveri a chi ne necessità. Una volta al mese.
C’è chi vende il carbone. C’è chi ne compra. Chi lo tira fuori dalla cava, chi
preferisce il propano, il petrolio, la legna di faggio, per cuocere le castagne
nella brace. Chi non può permettersi di sentire freddo. Qui ho anche avuto due
primi amori. Uno riccio, anima dinoccolata, l’altro mingherlino con il cuore di
fieno. Soldatini di piombo, angeli dalla coda puntuta. Il primo fuggito, per
errore, in una città di università e biscotti alla strega, il secondo primo
amore, nero di capelli, lisci, sistemati con una riga sul lato sinistro, di
nome Nero, è nel tinello a mettere croci di sul suo libro nero dei cavalli che
non vincono mai. Più croci indicano da quanto un cavallo non vince. Nero. Nero.
Nero, come il mio abito di rito. Cucito da mia madre, sbrindellato da tre
parti. Tre tentativi di infinito. Vestirò di bianco il giorno del mio funerale.
Come nel libro dei fiori in cui si dice che una rosa bianca sta a significare
silenzio. Silenzio. Finalmente. Silenzio. Ma non desidero la morte. Io voglio
il bianco… anche il nome mi piacerebbe cambiarlo. Mi piacerebbe che mi chiamassero
Rosa.
Perché qui fuori urla lo sciacallo, perché fra due
margini di intercettazione io sono quella che tende il filo di seta della
preghiera. Perché vorrei che tutti questi perché fossero domande a cui, per
ogni eventualità, esistono almeno due risposte. Una giusta. Una sbagliata. Poter scegliere, io, sempre,
quella giusta: per me. Sai cos’è l’isola di White? Lo sai, Rosa?
8
Sento dentro che quello non è il posto giusto per le
orchidee, girano da un davanzale all’altro, sopravvivono solo gli steli. So che
dovrei comprare una nuova moka: quella vecchia ha il manico che viene via. Ci
sarebbe bisogno di ridipingere la facciata, sembra la pancia di un salmone che
annaspa, vinta da una festa d’edera verso nord, cotta dal sole verso levante,
il vento ha scardinato un bel po’ di metri di grondaia, la scegliemmo marrone,
ma il sole ha stinto anche quelle. La canna fumaria del camino che non usiamo
mai è attraversata da un cilindro d’acciaio. L’ultimo inverno che arrostimmo
della carne sulla brace il comignolo prese fuoco, venne gente. Bussarono
<< va a fuoco il comignolo >> ma presto si spense, non l’abbiamo
più acceso il fuoco, da allora. Per tutta la lunghezza che prende una parete
intera, dal terrazzo fino al tetto, la canna fumaria andrebbe stuccata e poi
pitturata. Da quel giorno di 10, 12 inverni fa, ho anche deciso che non
avrei più mangiato carne.
Quest’anno non prepareremo il cenone di Natale. No.
Mia sorella, io. Mi piacerebbe per una volta essere servita. Anche Annibala la
pensa allo stesso modo. Ristorante, quindi o focacce assortite, pizza al
pomodoro. A Natale, a Capodanno. Magari anche la prossima Pasqua. Vino ne
berrò, stavolta, per girare sul carosello, non da provarne il vizio, solo
giungere al livello medio della letizia di chiunque e di nessuno. La scritta
sagace su un muro che risale a secoli passati: acerba e muta come le mani dei
pittori sul lungomare nei miei vagabondaggi, in cerca di deserti, basiliche
trafitte dal sole attraverso un solaio a pezzi. Approssimata, stilizzata, figlia
di me sola. Madre dei miei figli. Figli di me sola, per ora. E vedo nello
specchio delle ore questa casalinga discinta, con due puntini tatuati sul seno,
i capelli che scendono nella steppa del tempo, anneriscono nel fumo d’orzata.
La stufa a carbone. Le mani di Nero adagiate sulla carta dell’emisfero in cui
mi tocca abituarmi a non guardare oltre la superficie d’argento. negli occhi il
blu. I miei occhi neri, Milvia.
Scilla '83
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