sabato 7 luglio 2018

Vocativo Assente






















Dove
la bellezza a ribellarsi
Dove poesia a non riorganizzare i soliti
trame e complotti.

*


dove io possa dire amore Senza che sia obiettato in ovvi paradossi,
in politica per resto A una spesa d’ore bianche,  Oh stramberie,
bizzarrie, stravaganze di chi mette un narciso sterile su ogni bacio
che sfiora, su ogni sì o no detto o in cambio di un no a spada tratta.
E afferra e arraffa e tutto e gioia e allegria e gli altri sinonimi e l’antinomia
A tutto. E dove non mira ribassa – si ma io ho gioventù, forza bellezza,
la forma in cui va la cera persa di una scultura che non
sarà mai serrata.


Dove il mio lucchetto ha senso.
Dove io possa dire: E’ l’ultima.
O la prima.




*


Dove rivoluzione e libertà sono lo zucchero nel caffèllatte,
giocare con l’altalena in un deserto rigagnolo di sole, domandare e domandarsi
e non sapersi. E non rispondersi. Ma veramente, non nei libri degli altri.
Dove dal carceriere ottieni tutte le chiavi della notte.
Dove  noi che siamo amati diamo segnali di vita viva, da un sarto pescatore
Che ci insegna davvero ad essere Uccelli di fiore e pesci di poesidonie…



Io torno. E forse per la prima volta.
Illusione sulla terra che, forse ci si bada poco –
è un astro celeste. E tu no, nemmeno per
allegoria.




























Elia Belculfinè - 
ospite di sè












A una donna che passava vestita di nero















Portare un lutto in agosto, lontananza del sangue
stipato a compilare la lista della spesa. Qualcosa che sia più semplice.
Come chi una gioia – e spesso come me caro, e senza discrepanza –
O un laccio di desolata separazione - d’amore, di libertà - peso di lamina
estinta – livrea che ama la notte e ribollisce e tempesta le mani di germogli.
Carità di vetro sotto una pioggia intrisa  - città e grida, i tappeti battuti ai davanzali.
Le prove della tua nascente gaiezza. Aspettare il mattino, le rondini
che intonano una canzone occupata,
sotto il “ferro e fuoco” del ring a piombo a
mezzogiorno.





*


Può accadere ogni cosa: foderarsi di bianco, di pensarsi un veloce
orologio, donna che passi con pochi stracci neri -  di immergerti  in
una scarsità di avemarie –  primavere leali – il miracolo annunciato
dagli altoparlanti del santuario –  davvero non ti sembra di essere
né avere padroni, davanti al tuo ascendente dio. Ardente a spingere

e tirare sul basalto  un carrello vuoto - come un’arpa dosata –  
così vuota, irrisoria, così pallida – e al maschile: questo amore sepolto
vent’anni fa – un tao di lampi sul petto. Che non sai cosa sia,
come tutti noi, questo amore, questa morte.






































Scilla ‘83









venerdì 6 luglio 2018

Poesia Facile



















Non
importa che tu sieda nel buio
a racimolare api di fiducia. Basta che tu chieda
come vanno le cose, e se Elvis sia tornato in città.
Hellvi’s back, come predicono i Salmi Profetici -  e gioca d’azzardo
Su certe filosofie di pugnali.
Omaggio al cecchino che ha fatto centro sulla rovina di un pomeriggio retro-televisivo
Ma il bersaglio era piuttosto facile, e la posta in gioco
trascurabile.




*

I vecchi club dove non si contano scandali da anni,
stanno chiudendo sul boulevard dell’Ipotesi.
Questa è apologia, è guerra, mondo e fondo di vino alare…




*

Un
bicchiere dirotto, un sorso scrivente, scrosciante.
Uno strappo, un piacere tanto duraturo quanto scabro,
in questo rituale di Primavere clandestine dentro vagoni serrati di specchi
e magari un verso d’aquila o di Epica salverà il presente dall’essere
il solito eroe che nell’afa di luglio viene a ripararti il condizionatore d’aria.
O
a baciarti mentre dormi, con il suo odore
di un sigaro nell’affanno delle scale -
su un letto di schiuma e di rovi, dopo aver interrotto
ogni patteggiamento – tu.



































Scilla ‘83











Apologia dei miei piedi usati



































All'imperativo o desiderio - modo
di intraducibile saudade... greca di Rio in maschere,
fernweh  o inclinazione di specchi - ottativo e infinito di....
quando mi prendesti fra le mani i piedi uniti
e li annusasti freddi e forse avevano il loro odore -
di mare - dicesti - come l'odore degli zingari in quel canto progressivo.

Poi baciasti lo spazio tra un alluce e l'altro, sfiorando un po'
uno un po'  l'altro, con le labbra tiepide di fumo
appena spento.





*




Io
ricordo, amore, il profumo
di quel paio di fossili rossi che usavi
per prendere a calci il balzo di palla della luna. Scarpe?
Io dico che sono la preistoria del nostro inverno
e che questo non è il magnificat, un vago idolo di ritmo.
Ma il suono di un flauto elementare: segue a fissare nelle
orecchie, come a un
muro, scarpe chiodate a un
chiodo di futuro, per raccontare l’immensa storia delle galassie, anche se non prevede
tutto esattamente.





*





Dire che quella era una specie
di eternità. Non so  Ma l'eternità si sconta
vivendo, e si predetermina, come si paga l'affitto
per una camera buia, dove ci si pesta i piedi a vicenda,
in un ballo muto, a maschere posate - danze distanza - sopra le braci dell'ultimo 
fuorigioco di versi.




























Scilla'83