Quieta, diversa la notte si calibra sui
ponti, contro la tela di sacco del cielo. Il pane di fianco al piatto, il
piatto all’interno della cucina, sul tavolo. Un uovo sodo che ancora ondeggia e
fuma, appena bollito, posato fra il bicchiere e la ciotola delle olive. La
cucina è al piano interrato, la casa muore nel sole che bagna i ponti. Terra di
ponti e di barcaioli, sommersa nella nebbia quasi tutto l’anno. Abita qui. La casa silenziosa.
Si chiama Elia. 42 anni fra un mese.
Fuori dal vetro, il campanile della chiesa è come diluito in un bicchiere di
rosolio, alto e tenue, parla con la gente in una lingua morta
Parla a tutti. Solo lui la intende.
Aveva imparato a riconoscere la voce delle campane, un’estate nella missione di
Sant’Anselmo. Aiutavano i terremotati a trascinare le loro macerie, a
trasformare in storia la negligenza del governo. In acqua la sete. In fame il
pane bianco cotto a legna. Hai il nome del profeta, gli dicevano al catechismo.
Poi li mettevano seduti, le braccia incrociate, su dei piccoli banchi verde
acqua. Ripetete con me, diceva suor Beatrice, padre nostro che sei nei cieli
sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come
in cielo così in terra, dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i
nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non indurci in
tentazione, ma liberaci dal male. Amen. Questa è la preghiera che Gesù ci ha
insegnato, concludeva. La testa sui banchi.
Si era
lasciato alle spalle le ampie gonne bianche d’estate, i fischietti per
richiamare all’ordine, così come la fiducia nel caldo embrione della reduce
medio-borghesia cristiana. Campicchiava, senza un lavoro fisso né un fratello
da poter chiamare al telefono. Aveva un fratello, sì. Fisioterapista nel
reparto di geriatria di un
ospedale, nelle Marche.
Silvia, la secondogenita, di due anni
più giovane di lui, triennale in archeologia, lavorava da babysitter; noa e
Benedetto, in paese, figli di una compagna delle elementari. Vincent Lobo siede
allo sgabello da pianoforte, tira fuori una pistola. Si spara. La campana ha da
poco suonato tre tocchi.
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Bagnata di
assenzio, si leva la notte di primavera. La sedia, da impagliare, nessuno la
usa, tranne uno sporadico gatto - Occhi Gialli - dopo la caccia notturna. Il caminetto spento è al secondo piano di una
vecchia casa cantoniera, ridipinta di un rosso, a croste; la cucina è al piano
interrato. E’ lì, davanti a un bicchiere di rosolio, che Elia passa la maggior
parte della giornata. Di solito nei fine settimana tenta di convincere qualche
conoscente a portarlo con sé, come aiuto in ristorante, al bancone del bar, a
ridipingere la ringhiera di un ponte vicino casa. Vorrebbe che lo chiamassero
Vincent, ma la gente lo chiama Holly,
Elì, Mago, talvolta; Eliot, Lilì. Ventotto anni. Vincent Lobo. Il rosolio
bollito contro il raffreddore stagionale. Ragazzino, scriveva racconti per il
giornale del paese; una decina di fogli spillati e fotocopiati alla bene e
meglio. Gli ornamenti annientano, la poesia è come un paio di orecchini su di un
cadavere, come i titoli di cronaca incollati sui cavalletti fuori dei
giornalai.
L’edicola
del paese vende anche sigarette e detersivi, Orlando, il tabaccaio, è un tipo
dalle mani facili, un buon cuore, però. Gli fa credito, senza problemi. Vincent
fuma Rothmans rosse, in questo periodo, da un paio d’anni. L’esigenza del dire,
le piccole storie diarie, gli davano nel sogno, la speranza di poter vincere,
un giorno, il podio di un famoso premio letterario. Ma, di fatti, era dal liceo
che non metteva più nulla nero su bianco. Fuori, il sole cala nella sera, il
vento è sottile come una pagina di giornale. Elia Vincent, spegne a metà la
sigaretta, va al secondo piano, spalanca la finestra. Scosta lo sgabello dallo
scrittoio, lo regola; è di quelli da pianoforte, con una grossa vite d’acciaio
da far ruotare. Apre il cassettino destro dello scrittoio, tira fuori una Colt
lucida e silenziosa, preme il grilletto contro la tempia sinistra.
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Domani è
mercoledì. Ho voglia di fare una bella pedalata, fino alla Rocca. Tutta salita,
sono fuori allenamento… – pensava fra sé e sé – mi porto l’armonica, qualche
libro, un quarto di vino, e quando trovo
un posto, mi fermo. E bevo il vino e apro il libro e suono l’armonica. Mi tiro
una sega sotto un castagno. In quest’ordine. Domani.
Domani è
mercoledì. La campana batte tre colpi. Mentre
ancora dormiva, ha sentito
bussare svariate volte. Non è riuscito
a riaddormentarsi. E’ rimasto per circa tre quarti d’ora fra sonno e veglia,
poi si è si è infilato un paio di jeans e le scarpe. Senza boxer, senza calzini;
ha frugato nelle tasche della giacca di un paio di sere prima – dovrebbero
esserci degli spiccioli: al bar, per un caffè. Sigaretta. Poi una ancora, nella
piazza vecchia del paese. Rientra, per sciacquarsi il viso e vestirsi per bene.
Boxer puliti, calzini, una spilla a forma di aragosta sulla giacca di sacco,
blu notte. Domani è mercoledì. Lunedì, l’intera giornata con Vittorio, per
organizzare le prove della band di cui era il cantante e, saltuariamente,
chitarrista. Cesare gli aveva insegnato i rudimenti del blues. Marcello,
qualche anno prima, un paio di accordi per accompagnarsi nel canto. Un decennio
di band di fortuna. Ed ora un trio. Chitarra, wurlitzer, voce. Per sbarcare il
lunario, se solo fossero riusciti a trovare delle date per l’estate. Giovedì si
prova.
Domani è
mercoledì. Sale le scale, non senza una certa fretta, non si direbbe
dall’affanno, lento a causa del sovrappeso, apre la porta rumorosa della stanza
da letto, entra. Siede sul letto con la chitarra in una mano, tenuta per una
maniglia, apre la custodia, prova alcuni accordi di I shell Be Released, una
corda è spezzata, così le smonta tutte, le sostituisce, con calma, accordando
ad orecchio, solo per riprovare la canzone. Viene bene. Anche il cantato gli
piace particolarmente. Alle prove chiederò a Fabrizio e Vittorio di suonarla
per prima. Sollevato, rimette la
chitarra nella custodia, senza chiuderla completamente, tanto – si dice – vado
in piazza, prendo un altro caffè, torno, accordo per bene la chitarra e suono
un po’, magari riprovo il pezzo di Dylan, cerco una frase decente per l’ assolo.
Il vento sbatte la persiana aperta, Elia siede allo sgabello, apre il cassetto,
notando il disordine, cartacce e fili elettrici, accendini mezzi rotti,
stilografiche secche. Apre la custodia della Colt, facendola scattare con una
mano sola. Avvicina la canna alla tempia sinistra. Preme l’indice contro il
grilletto. Il vento fa sbattere le imposte, quasi contemporaneamente al suono
dello sparo.
Bussano. Natalino.
Gli asparagi. Qualche giorno fa hanno appiccato
un incendio, dopo la pioggia di sabato,
ne saranno spuntati parecchi. Natalino, ci metto la mano sul fuoco. Gli occhi
ancora chiusi: brulicano, lì dietro, colori nel semi-buio, la persiana batte
intervalli regolari. Spiagge e scene quotidiane, occhi chiusi. Occhi. Chiusi.
Annino le chiama illuminazioni. Capita spesso, quando è stanco, che ancora
sveglio veda case, stanze, muovendosi all’interno di esse come una mosca,
posandosi sui fiori ai davanzali interni, passando valichi, come nel libro di
Calvino. Uno dei dottori che aveva conosciuto gli disse che era una cosa del
tutto normale, una fase ipnotica che
precede quella del sonno. Ma aveva un’ idea diversa: è una dote. Una singolarità.
Una compagnia, per altro. Si rigira. Gli dolgono i talloni, così, disteso sulla
schiena. A causa del sovrappeso non gli è facile camminare a lungo. Siede
spesso, su un gradino, su di una panca, in piazza. Più spesso su un gradino. Ha
le sue sedute abituali: lo scalino del bar, prima porta a sinistra; quello del
calzolaio o dell’Ufficio Postale.
Ok, mi alzo –
Si infila un paio di pantaloni e delle
scarpe
Scende le scale e va al bar.
Le campane suonano le tre. Il
pomeriggio è appena cominciato, ma per lui è come se fosse mattino.
Ok – si dice – un paio di sigarette e
vado a provare, altrimenti giovedì mi danno addosso.
Stamattina ti cercava Natalino, dice il
barista.
Buono, il caffè.
Te lo pago dopo. O domani.
Segnalo.
Esce, si accende una sigaretta e
riconta gli spiccioli nella mano destra.
Quasi quasi vado all’altro bar e mi
prendo il secondo.
Il bar di Francesco ammuffisce sulla
piazza vecchia del paese. Ci lavora Ester, la figlia adottiva del proprietario -
Mi fai un caffè, Esterina? Te lo pago domani, segnalo, ci dovrebbe essere anche
dell’altro
Poi ti pago tutto insieme.
Buono.
Si accende una sigaretta e pensa a come
risolvere il problema in un assolo. A casa, prende un bicchiere d’acqua
frizzante, ripensa alle prove con la band del giovedì prima,
senza particolari conclusioni. Sale le
scale e mentre prova un brano di Dylan, sente sbattere la persiana. Apre il
cassetto, dopo essersi seduto sullo sgabello regolato per bene. Dovrei
riportarlo giù al pianoforte, pensa.
Prende la custodia della pistola trovata da un robivecchi, fa scattare
la molla, il guscio mostra una polpa argentea e lattiginosa. La Colt era di suo
nonno.Tira un sospiro. Si spara. Quasi contemporaneamente il vento fa sbattere
la finestra.
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La stanza è
quella in cui dormivano i suoi nonni. I mobili sono gli stessi di allora.
Passava il tempo a fare commissioni da una casa di parenti
all’altra, quando non era al
convitto, o in giro con Rico e
Salvatore.
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E’ la
primavera del 1992. Martedì, due giorni dopo la prima comunione, sua e di
Silvia. Due pubblicazioni sul giornalino del paese, un racconto, una favola. Il
cugino è nella redazione capitanata da Don Riparato. Il paese è in festa. La scuola
è in un’altra frazione, ma oggi non è andato. Si ferma da Mario: cinquecento
lire di caramelle forti, e una merendina. Sono le sue preferite, gli piace
berci sopra un bicchier d’acqua frizzante. Ha fregato i soldi dal borsello di
sua nonna, mentre grattugiava il formaggio, in cucina. Domenica ci metteranno
indosso le tonachelle bianche e sfileremo in processione, col prete che ci
benedice dagli altoparlanti portatili. Le pinzocchere gli fanno da mangiare,
due volte al giorno, lo chiamano senza Don, lo ospitano la domenica a pranzo,
gli puliscono casa. Una volta le ha viste reggergli l’ombrello, mentre fumava una
di quelle sue sigarette sottili, a turno; la strada riluceva per il riflesso
dei fanali. Quella sera gli dissero del nonno, che era ammalato e che non
avrebbe potuto partecipare alla festa di Sant’Erasmo. Sarebbe morto in
settembre.
Rico è in piazza, la bicicletta rossa verniciata
da suo padre <<Vado da zio Nino a comprare il prosciutto cotto, per nonna
– poi esco>> Vado, torno. In cortile prendo la bmx e raggiungo Rico. In
sella. Andiamo in campagna. C’è un campo coltivato a fave. A Rico viene il mal
di pancia, deve tornare a casa. Rimango lì a mangiarne ancora un po’. Poi,
anche io rincaso. Sono le tre del
pomeriggio, le colleghe di mia madre mi hanno regalato un orologio, per la
comunione. Ancora faccio fatica a leggere l’ora. Ma suona la campana. Tre
rintocchi contro il sole, me lo ha insegnato suor Carla. Il vento scuote le finestre,
aperte per far cambiare aria alle stanze. Che cos’è un profeta, nonna? Mi
chiamo Elia Vincent. Gli insegnanti sbagliavano sempre la pronuncia del mio
cognome.
Elia va al
bagno, si lava le mani, sale in camera dei nonni. Alla scrivania c’è lo
sgabello del pianoforte di sua madre. Perché sia lì, invece di una sedia
normale, il nonno non l’ha spiegato, sarà che, quando si mette a fare i conti,
è come un pianista, sulla calcolatrice. Si avvicina allo sgabello e dà due giri
al sedile, per regolarlo alla giusta altezza. E’ più basso dei suoi compagni,
ma – crescerai – gli dicono. Siede, apre il cassetto dove il nonno tiene i
conti e le bollette pagate. C’è un forte
vento. Prende la Colt lucida d’argento, fra gli scontrini delle medicine, e le
spillette della cucitrice. Preme il grilletto alla tempia sinistra. La persiana,
intanto, sbatte.
(Scilla ‘83
–
Domenica, 4
Giugno ’17
Cascano/Casanova
- Ore: 02:43)
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