lunedì 28 maggio 2018

Flash 1.0 - Racconto



Cristina Bove et Scilla '83

















Quieta, diversa la notte si calibra sui ponti, contro la tela di sacco del cielo. Il pane di fianco al piatto, il piatto all’interno della cucina, sul tavolo. Un uovo sodo che ancora ondeggia e fuma, appena bollito, posato fra il bicchiere e la ciotola delle olive. La cucina è al piano interrato, la casa muore nel sole che bagna i ponti. Terra di ponti e di barcaioli, sommersa nella nebbia quasi tutto l’anno.  Abita qui. La casa silenziosa.
Si chiama Elia. 42 anni fra un mese. Fuori dal vetro, il campanile della chiesa è come diluito in un bicchiere di rosolio, alto e tenue, parla con la gente in una lingua morta
Parla a tutti. Solo lui la intende. Aveva imparato a riconoscere la voce delle campane, un’estate nella missione di Sant’Anselmo. Aiutavano i terremotati a trascinare le loro macerie, a trasformare in storia la negligenza del governo. In acqua la sete. In fame il pane bianco cotto a legna. Hai il nome del profeta, gli dicevano al catechismo. Poi li mettevano seduti, le braccia incrociate, su dei piccoli banchi verde acqua. Ripetete con me, diceva suor Beatrice, padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra, dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non indurci in tentazione, ma liberaci dal male. Amen. Questa è la preghiera che Gesù ci ha insegnato, concludeva. La testa sui banchi.

Si era lasciato alle spalle le ampie gonne bianche d’estate, i fischietti per richiamare all’ordine, così come la fiducia nel caldo embrione della reduce medio-borghesia cristiana. Campicchiava, senza un lavoro fisso né un fratello da poter chiamare al telefono. Aveva un fratello, sì. Fisioterapista nel reparto di geriatria di un
ospedale, nelle Marche.

Silvia, la secondogenita, di due anni più giovane di lui, triennale in archeologia, lavorava da babysitter; noa e Benedetto, in paese, figli di una compagna delle elementari. Vincent Lobo siede allo sgabello da pianoforte, tira fuori una pistola. Si spara. La campana ha da poco suonato tre tocchi.

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Bagnata di assenzio, si leva la notte di primavera. La sedia, da impagliare, nessuno la usa, tranne uno sporadico gatto - Occhi Gialli - dopo la caccia notturna.  Il caminetto spento è al secondo piano di una vecchia casa cantoniera, ridipinta di un rosso, a croste; la cucina è al piano interrato. E’ lì, davanti a un bicchiere di rosolio, che Elia passa la maggior parte della giornata. Di solito nei fine settimana tenta di convincere qualche conoscente a portarlo con sé, come aiuto in ristorante, al bancone del bar, a ridipingere la ringhiera di un ponte vicino casa. Vorrebbe che lo chiamassero Vincent, ma la gente lo chiama Holly,  Elì, Mago, talvolta; Eliot, Lilì. Ventotto anni. Vincent Lobo. Il rosolio bollito contro il raffreddore stagionale. Ragazzino, scriveva racconti per il giornale del paese; una decina di fogli spillati e fotocopiati alla bene e meglio. Gli ornamenti annientano, la poesia è come un paio di orecchini su di un cadavere, come i titoli di cronaca incollati sui cavalletti fuori dei giornalai.

L’edicola del paese vende anche sigarette e detersivi, Orlando, il tabaccaio, è un tipo dalle mani facili, un buon cuore, però. Gli fa credito, senza problemi. Vincent fuma Rothmans rosse, in questo periodo, da un paio d’anni. L’esigenza del dire, le piccole storie diarie, gli davano nel sogno, la speranza di poter vincere, un giorno, il podio di un famoso premio letterario. Ma, di fatti, era dal liceo che non metteva più nulla nero su bianco. Fuori, il sole cala nella sera, il vento è sottile come una pagina di giornale. Elia Vincent, spegne a metà la sigaretta, va al secondo piano, spalanca la finestra. Scosta lo sgabello dallo scrittoio, lo regola; è di quelli da pianoforte, con una grossa vite d’acciaio da far ruotare. Apre il cassettino destro dello scrittoio, tira fuori una Colt lucida e silenziosa, preme il grilletto contro la tempia sinistra.

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Domani è mercoledì. Ho voglia di fare una bella pedalata, fino alla Rocca. Tutta salita, sono fuori allenamento… – pensava fra sé e sé – mi porto l’armonica, qualche libro,  un quarto di vino, e quando trovo un posto, mi fermo. E bevo il vino e apro il libro e suono l’armonica. Mi tiro una sega sotto un castagno. In quest’ordine. Domani.

Domani è mercoledì. La campana batte tre colpi.  Mentre ancora dormiva, ha sentito
bussare svariate volte. Non è riuscito a riaddormentarsi. E’ rimasto per circa tre quarti d’ora fra sonno e veglia, poi si è si è infilato un paio di jeans e le scarpe. Senza boxer, senza calzini; ha frugato nelle tasche della giacca di un paio di sere prima – dovrebbero esserci degli spiccioli: al bar, per un caffè. Sigaretta. Poi una ancora, nella piazza vecchia del paese. Rientra, per sciacquarsi il viso e vestirsi per bene. Boxer puliti, calzini, una spilla a forma di aragosta sulla giacca di sacco, blu notte. Domani è mercoledì. Lunedì, l’intera giornata con Vittorio, per organizzare le prove della band di cui era il cantante e, saltuariamente, chitarrista. Cesare gli aveva insegnato i rudimenti del blues. Marcello, qualche anno prima, un paio di accordi per accompagnarsi nel canto. Un decennio di band di fortuna. Ed ora un trio. Chitarra, wurlitzer, voce. Per sbarcare il lunario, se solo fossero riusciti a trovare delle date per l’estate. Giovedì si prova.

Domani è mercoledì. Sale le scale, non senza una certa fretta, non si direbbe dall’affanno, lento a causa del sovrappeso, apre la porta rumorosa della stanza da letto, entra. Siede sul letto con la chitarra in una mano, tenuta per una maniglia, apre la custodia, prova alcuni accordi di I shell Be Released, una corda è spezzata, così le smonta tutte, le sostituisce, con calma, accordando ad orecchio, solo per riprovare la canzone. Viene bene. Anche il cantato gli piace particolarmente. Alle prove chiederò a Fabrizio e Vittorio di suonarla per prima.  Sollevato, rimette la chitarra nella custodia, senza chiuderla completamente, tanto – si dice – vado in piazza, prendo un altro caffè, torno, accordo per bene la chitarra e suono un po’, magari riprovo il pezzo di Dylan, cerco una frase decente per l’ assolo. Il vento sbatte la persiana aperta, Elia siede allo sgabello, apre il cassetto, notando il disordine, cartacce e fili elettrici, accendini mezzi rotti, stilografiche secche. Apre la custodia della Colt, facendola scattare con una mano sola. Avvicina la canna alla tempia sinistra. Preme l’indice contro il grilletto. Il vento fa sbattere le imposte, quasi contemporaneamente al suono dello sparo.


Bussano. Natalino. Gli asparagi. Qualche giorno fa hanno appiccato
un incendio, dopo la pioggia di sabato, ne saranno spuntati parecchi. Natalino, ci metto la mano sul fuoco. Gli occhi ancora chiusi: brulicano, lì dietro, colori nel semi-buio, la persiana batte intervalli regolari. Spiagge e scene quotidiane, occhi chiusi. Occhi. Chiusi. Annino le chiama illuminazioni. Capita spesso, quando è stanco, che ancora sveglio veda case, stanze, muovendosi all’interno di esse come una mosca, posandosi sui fiori ai davanzali interni, passando valichi, come nel libro di Calvino. Uno dei dottori che aveva conosciuto gli disse che era una cosa del tutto normale, una  fase ipnotica che precede quella del sonno. Ma aveva un’ idea diversa: è una dote. Una singolarità. Una compagnia, per altro. Si rigira. Gli dolgono i talloni, così, disteso sulla schiena. A causa del sovrappeso non gli è facile camminare a lungo. Siede spesso, su un gradino, su di una panca, in piazza. Più spesso su un gradino. Ha le sue sedute abituali: lo scalino del bar, prima porta a sinistra; quello del calzolaio o dell’Ufficio Postale.
Ok, mi alzo –
Si infila un paio di pantaloni e delle scarpe
Scende le scale e va al bar.
Le campane suonano le tre. Il pomeriggio è appena cominciato, ma per lui è come se fosse mattino.
Ok – si dice – un paio di sigarette e vado a provare, altrimenti giovedì mi danno addosso.
Stamattina ti cercava Natalino, dice il barista.
Buono, il caffè.
Te lo pago dopo. O domani.
Segnalo.
Esce, si accende una sigaretta e riconta gli spiccioli nella mano destra.
Quasi quasi vado all’altro bar e mi prendo il secondo.
Il bar di Francesco ammuffisce sulla piazza vecchia del paese. Ci lavora Ester, la figlia adottiva del proprietario - Mi fai un caffè, Esterina? Te lo pago domani, segnalo, ci dovrebbe essere anche dell’altro
Poi ti pago tutto insieme.
Buono.
Si accende una sigaretta e pensa a come risolvere il problema in un assolo. A casa, prende un bicchiere d’acqua frizzante, ripensa alle prove con la band del giovedì prima,
senza particolari conclusioni. Sale le scale e mentre prova un brano di Dylan, sente sbattere la persiana. Apre il cassetto, dopo essersi seduto sullo sgabello regolato per bene. Dovrei riportarlo giù al pianoforte, pensa.  Prende la custodia della pistola trovata da un robivecchi, fa scattare la molla, il guscio mostra una polpa argentea e lattiginosa. La Colt era di suo nonno.Tira un sospiro. Si spara. Quasi contemporaneamente il vento fa sbattere la finestra.






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La stanza è quella in cui dormivano i suoi nonni. I mobili sono gli stessi di allora.
Passava il tempo  a fare commissioni da una casa di parenti all’altra, quando non era al
convitto, o in giro con Rico e Salvatore.

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E’ la primavera del 1992. Martedì, due giorni dopo la prima comunione, sua e di Silvia. Due pubblicazioni sul giornalino del paese, un racconto, una favola. Il cugino è nella redazione capitanata da Don Riparato. Il paese è in festa. La scuola è in un’altra frazione, ma oggi non è andato. Si ferma da Mario: cinquecento lire di caramelle forti, e una merendina. Sono le sue preferite, gli piace berci sopra un bicchier d’acqua frizzante. Ha fregato i soldi dal borsello di sua nonna, mentre grattugiava il formaggio, in cucina. Domenica ci metteranno indosso le tonachelle bianche e sfileremo in processione, col prete che ci benedice dagli altoparlanti portatili. Le pinzocchere gli fanno da mangiare, due volte al giorno, lo chiamano senza Don, lo ospitano la domenica a pranzo, gli puliscono casa. Una volta le ha viste reggergli l’ombrello, mentre fumava una di quelle sue sigarette sottili, a turno; la strada riluceva per il riflesso dei fanali. Quella sera gli dissero del nonno, che era ammalato e che non avrebbe potuto partecipare alla festa di Sant’Erasmo. Sarebbe morto in settembre.

 Rico è in piazza, la bicicletta rossa verniciata da suo padre <<Vado da zio Nino a comprare il prosciutto cotto, per nonna – poi esco>> Vado, torno. In cortile prendo la bmx e raggiungo Rico. In sella. Andiamo in campagna. C’è un campo coltivato a fave. A Rico viene il mal di pancia, deve tornare a casa. Rimango lì a mangiarne ancora un po’. Poi, anche io rincaso.  Sono le tre del pomeriggio, le colleghe di mia madre mi hanno regalato un orologio, per la comunione. Ancora faccio fatica a leggere l’ora. Ma suona la campana. Tre rintocchi contro il sole, me lo ha insegnato suor Carla. Il vento scuote le finestre, aperte per far cambiare aria alle stanze. Che cos’è un profeta, nonna? Mi chiamo Elia Vincent. Gli insegnanti sbagliavano sempre la pronuncia del mio cognome.

Elia va al bagno, si lava le mani, sale in camera dei nonni. Alla scrivania c’è lo sgabello del pianoforte di sua madre. Perché sia lì, invece di una sedia normale, il nonno non l’ha spiegato, sarà che, quando si mette a fare i conti, è come un pianista, sulla calcolatrice. Si avvicina allo sgabello e dà due giri al sedile, per regolarlo alla giusta altezza. E’ più basso dei suoi compagni, ma – crescerai – gli dicono. Siede, apre il cassetto dove il nonno tiene i conti e le bollette pagate.  C’è un forte vento. Prende la Colt lucida d’argento, fra gli scontrini delle medicine, e le spillette della cucitrice. Preme il grilletto alla tempia sinistra. La persiana, intanto, sbatte.





















(Scilla ‘83 –
Domenica, 4 Giugno ’17
Cascano/Casanova - Ore: 02:43)






 

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