domenica 27 maggio 2018

Hospes In Scilla Savina Dolore Massa


Scilla '83

























Per assassinarvi

Vi concedo le mie natiche impudìche
le cosce scarne
le posture maschili e
quelle di grazie ruffiane
di femmina che non è madre
e vale meno delle altre
io
mi umilio in libidini immacolate
dubbi fecondi
che tengo in grembo
feti
a morire di cancrena imporporata
e niente è indolore
non la mia disperata virilità
che celo sotto tre palmi di polvere
e la mediocrità
di quando mi accontento
e la superbia
di quando odio davvero
e il sangue
che sgrida le ossa per il chiasso
io
mostro il sesso
ai ciechi che hanno paura di toccarlo
ma accendo
labirinti di immaginazioni
senza uscite
e senza ansie d'amore
vendo i succhi del mio corpo
a creature simili ad un quarto di luna
come chi
ha una vecchiaia di vent'anni
o un'allegria di antica quercia
io
mangio pane e zucchero
accanto a morti di cirrosi
e che non mi si biasimino le passioni
io
sono una
che ama le parole barocche
con la crudezza giusta
per assassinarvi.




Il bacio di Jung

Si scoprì gravida dopo un sonno di cavalle in improponibile strada,
gonfia nelle ossa delle mani pronte all’espulsione
acqua e primo sangue dipinsero di unghiate il muro
perché quando la notte acceca la paura del non risveglio
c’è sempre almeno una spalla di calcina a reggere il bolo della morte

non si accontentò di castrare le creature
dopo che Jung baciò loro la fronte
per distrarle malamente dal ratto dell’amore impuro,
ma si dice che lei sbarrò le loro fughe con l’incestuosa proposta
di svenargli il membro se non con un coltello almeno con la bocca

tanta delicatezza fu studiata elaborata processata:
la cosidetta madre priva d’avvocato alla difesa
fu impalmata in una piazza
improponibile
tra schiamazzi di cavalle e l’assenza buia dell’almeno spalla di calcina

non gridò la sua innocenza e neppure la nitrì come sarebbe stato opportuno
per la folla accorsa a ballarsi la serata
lei tra le anche si godette soltanto la durezza di quel palo
finché un qualsiasi ignoto osò assegnarglielo per figlio
solo a vederglielo gattonare per la figa.




Per ogni addio non pronunciato ma accaduto
per ogni musica che ha avuto un singulto notturno
per chi mi arriva in sogno smagrito
per ogni pisciarsi le scarpe
se è campagna ad accogliere lo spurgo
per chi mi è stato dentro attento
a richiudere la porta andando via
per i mandorli selvaggi in fiore
anche se febbraio non lusinga
per i rossetti senza senso quando la bocca tace
per i rossetti sulle cicche spente in malumore
e maleodore, no, non sanno di assenzio
neppure serrando gli occhi forte
immaginando
non sanno di assenzio
non sanno di rossetto
saliva? Meglio dire sputo.

Per ogni dire e dire un po’ tremando
nascoste le labbra dietro la spavalderia
la bugia, l’accontentare, prima del saluto
e dell’inchino disordinando sedie
meglio inciampare negando aiuto di raccolto.

Ingombrarmi di capelli e anche cappelli
specchiarmi la malaria dell’occhio
vedovo dell’unica giostra che gli fu amante.
Vedovo l’occhio implora la carezza delle ciglia.
Peccato quanto sappia essere sadica una discesa
di palpebra pelosa: si inchioda offesa pretendendo pianto.
Il pianto, chissà perché è scomparso. Gli basterebbe un mandorlo?
Se è in fiore.
Gli basterebbe ricordare dov’è la sua fonte. Là è il problema.
Là, per ogni.



Stramonio

Piovve stramonio su un'unica strada, una notte quasi conclusa
ancora abbastanza scura per concedere l'ultimo sogno agli ignari
dormienti ciascuno in scomposta postura
nevosa la bava graffito di mento e guanciale

chi al tavolo guardò la moglie la amò stupendosene

nelle rughe di lei navigavano ninfee
e le ultime parole d'addio di Majakovskij in giapponese

un vedovo a sei anni si sentì pronto a dimenticare
il ricordo della fessura ancora senza il vello
della bimba che gliel'aveva mostrata accanto al geranio nel balcone

pansè quel fiore di lolita fuggita dall'occhio stupratore
prigioniera tra le gobbe di un cammello
verso deserti qualsiasi, o una grotta di grifoni purché di lei
si celebrasse il lutto, in lussuria, con ogni infanzia russa o vaghezza d'ungherese

la fuga del colore di un cane si affacciò sull'uscio dell'inferno del dirimpettaio

un cieco d'amore smise di chiedere l'elemosina per il suo cappello
vide le gocce del veleno piovere sulla prescelta strada
barattò le sue pene con quelle di un violino, scordato, ma autentico tzigano




Il mestiere della menzogna

Avrei voluto non incontrarmi alla messa in scena di me stessa,
verificarmi la parrucca e la veste
il cerone di chi si vede premiata la morte tra gli applausi
in inchino che mi lascerà la gobba, signori.
Ma voi sorridete all'artigiana delle maschere
alle cento vite spalle ai sipari d'occasione
d'ossessione mai bianca
come una nuvola che passò alle sette della sera
sul cielo del teatro, e fui costretta a non guardarla
perché il contratto non prevedeva il mio ritardo.

Frette che non abbandonino al sospeso

i momenti e anche il niente, le cose
ché tutto si possa raddoppiare
triplicare nei giorni senza data
nelle ore e il suo coltello della fine.
Sbagli più che gesti senza colpe
collezionati
ombre aura vortice incomprensibile mio dire.

Di me ne moriranno molte
ciascuna amata o disprezzata in differenze,
al prete che avvicinerà la salma
dite pure che probabilmente una di me che sono
accetterà la sua parola

ma solo con il diritto di cambiarla.




Carta da anestetizzare

Il vino sorrise alla bocca serrata
si allungò in postura sconcia
liberò le sue viscere acri

conquistò in pochi attimi
gli artigli sul bicchiere
vetro innocente da svuotare
o da spezzare
cocci
coltelli su carne ancora vigile
eretta imbronciata
carta da anestetizzare,
Fammi dimenticare



la lingua si arrese al rosso dire
fu garofano senza capirlo

fu garofano.



Compassione di sé

Frollata è perfino la postura
di mosconi compagni diurni,
la notte, esagerato chiamarla tale
se non preceduta
da prece
ceduta
malamente al lenzuolo:
s'inganni s'inganni il dormire.
Circolare nel tempo
spina di compasso il contare
vortice senza apparente pericolo
un pesce nuotò un canto di montagna
circolare disdire lingua amara svolta
alla curva perpetua andatura regolare.
Finché il compasso si divarica
perduta la fermezza della mano.



Savina Dolores Massa





 

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